Etnomedicina e Antropologia medica: un approccio storico-critico
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Come citare

Seppilli, T. (2006). Etnomedicina e Antropologia medica: un approccio storico-critico. AM. Rivista Della Società Italiana Di Antropologia Medica, 11(21-26). Recuperato da https://www.amantropologiamedica.unipg.it/index.php/am/article/view/231

Abstract

Ethnomedicine and Medical anthropology: a historical-critical approach

The aim of this essay is first to highlight, in the history of the approaches under which the anthropological disciplines have addressed the study of the representations and practices related to the processes of health / illness, the existence of a real watershed able to configure at least at a first approximation, two main quite distinct phases. And probably a third one of which the first manifestations seems to glimpse today. This watershed appears connected, in essence, with the way in which the anthropological disciplines are reported to “our” medicine, the modern Western medicine, or rather biomedicine.
In fact, in a first period, anthropological attention has been given - including representations  and  medical  practices  -  only  (a)  to  populations  defined  by  the  Westerners  as “exotic” or “primitive”, deemed as “lingered” in their evolution compared to the achievements of the modern Western culture of the upper classes, or (b) to the working classes of Europe – particularly the rural ones - with a high cultural otherness than the ruling classes: an otherness, defined as “folk” and also considered in some sense “primitive”, with features precisely comparable to those of the “exotic” cultures. It is in this “restrictive” orientation of the anthropological studies on the medicines, and in a way in the underlying theoretical approach that the term ethnomedicine generally refers to.
Of this approach - primarily related to an undue extension of what emerged from the great discoveries of biology and paleontology of the nineteenth-century study of historical and social phenomenology - are highlighted here not only the limitations and distortions but also the serious implications of justification of colonialism as “civilizing work”, the repression of any deviance as “purification” of the human log by the resurgence of dangerous “atavisms” and, as more directly concerns us here, the indiscriminate fight against any alien, to the modern European medicine, practice of protecting the health in the name of reason and progress. Yet, it is stressed that at this early stage of the anthropological attention to medicines, were made, especially in folk contexts, important systematic surveys that although conducted to document the “archaic” beliefs and behaviours to fight and overcome, now appear really valuable.
A real qualitative leap occurs when anthropology, around the mid-900, starts to put on the subject of her investigation also the modern Western medicine (better defined as “biomedicine”), examining it as one of the several medical systems that have taken place in the human history. It is in reference to this new approach - not only larger but epistemologically different - which is generally used the term medical anthropology.
Trying to outline here some key features of the background of this approach. First, of course, broadening the range of investigation: not only because also “our” medicine is placed on the object of research, but also because this object is extended to include more than the representations and practices regarding health/illness, and also the conditions and social processes that affect these states as possible co-determinants. Secondly, the development of some important and specific focal points of investigation, the related conceptual tools as well as the introduction of new methods of collection and processing of information. Finally, the theme and the exploration – that moreover initiated in the psychological disciplines in the late nineteenth century – of the complex and articulated issue of the subjective - cultural components in all processes of illness and healing.
On the other hand, biomedicine is not possible not to be in effect, for the medical anthropology, a particular speaker because, if first - like any other medical system - it constitutes, as we have seen, one of many objects of inquiry, secondly, both are good or bad reference to a common epistemological horizon: the one of the scientific worldview. So that, the biological approach to health/illness and to some extent the very concept of illness – or in other words, the corpus cognitivo constructed by biomedicine – can not but be for the medical anthropology, a fundamental point of reference in view to start a fully integrated scientific approach.
It is in this dual relationship with western medicine that medical anthropology shapes in a certain way to be a sort of critical consciousness and a possible stimulus to new and more organic openings of its scientific paradigm, thus helping to overcome in a systemic perspective, the biological limits, the still heavy cognitive and operational segmentation, and some persistent “ideological” closures to what may come from acquired knowledge through other medicines.

Etnomedicina e Antropologia medica: un approccio storico-critico

Proposito di questo saggio è innanzitutto quello di evidenziare, nella storia degli approcci in base ai quali le discipline antropologiche hanno affrontato lo studio delle rappresentazioni e delle pratiche relative ai processi di salute/malattia, la esistenza di un vero e proprio spartiacque: tale da configurare, almeno in prima approssimazione, due grandi fasi abbastanza distinte. E probabilmente una terza, della quale sembra di intravvedere, oggi, le prime manifestazioni. Questo spartiacque appare connesso, in sostanza, al modo con cui le discipline antropologiche si sono rapportate alla “nostra” medicina, la moderna medicina occidentale o, meglio, la biomedicina.
In un primo periodo, infatti, anche per quanto riguarda le rappresentazioni e le prati-che mediche l’attenzione antropologica è stata rivolta soltanto (a) verso le popolazioni definite dagli Occidentali  come “esotiche” o “primitive”, ritenute “attardate”,  nella loro evoluzione, rispetto ai traguardi raggiunti dalla moderna cultura dei ceti alti occidentali, oppure (b) verso gli strati popolari europei – in particolare quelli rurali – caratterizzati da una forte alterità culturale rispetto alle classi dominanti: una alterità, questa,  definita  “folclorica”  e  ritenuta  anch’essa  in  certo  senso  “primitiva”,  con  tratti paragonabili appunto a quelli delle culture “esotiche”. È a tale orientamento “restrittivo” degli studi antropologici sulle medicine, e in certo modo all’approccio teorico che vi è sotteso, che viene in genere riferito il termine etnomedicina. Di questo approccio – con-nesso innanzitutto a una indebita estensione di quanto emerso dalle grandi scoperte della biologia e della paleontologia ottocentesche allo studio della fenomenologia storico-sociale – vengono qui messi in luce non solo i limiti e le distorsioni ma anche le gravi implicazioni giustificative del colonialismo, come “opera civilizzatrice”, della re-pressione di ogni devianza, come “purificazione” del ceppo umano dal riemergere di pericolosi  “atavismi”  e,  per  quanto  qui  più  direttamente ci concerne, della lotta indiscriminata contro ogni pratica di difesa della salute estranea alla moderna medicina  europea,  nel  nome  della  ragione e del progresso. E tuttavia, si sottolinea che in questa prima fase dell’attenzione antropologica alle medicine furono realizzate, specie in contesti folclorici, rilevazioni importanti e sistematiche, che seppur condotte per documentare credenze e comportamenti “arcaici” da combattere e superare, appaiono oggi realmente preziose. Un vero e proprio salto qualitativo si verifica quando l’antropologia, intorno alla metà del ‘900, inizia a porre a oggetto delle proprie indagini anche la moderna medicina occidentale (meglio definita come “biomedicina”), esaminandola come uno dei numerosi sistemi medici che si sono succeduti nella storia dell’umanità. Ed è in riferimento a questo nuovo approccio – non solo più ampio ma epistemologicamente diverso – che viene generalmente usato il termine antropologia medica.
Di questo approccio si cerca qui di delineare alcune principali caratteristiche di fondo. Anzitutto, appunto, l’ampliamento del campo di indagine: non solo perché viene posta a oggetto di ricerca anche la “nostra” medicina, ma altresì perché tale oggetto si allarga a comprendere oltre alle rappresentazioni e alle pratiche concernenti gli stati di salute/malattia anche le condizioni e i processi sociali che su tali stati incidono come possibili co-determinanti. In secondo luogo, la messa a punto di alcuni importanti e specifici fuochi di indagine e delle correlate strumentazioni concettuali, nonché l’introduzione di nuove metodiche di rilevazione ed elaborazione delle informazioni. Infine, la tematizzazione e la esplorazione – avviate peraltro nelle discipline psicologiche già alla fine dell’Ottocento – della complessa e articolata questione delle componenti soggetti-ve-culturali in tutti i processi di malattia e di guarigione.
D’altronde, la biomedicina non può non essere, in effetti, per l’antropologia medica un interlocutore particolare perché se da un lato – al pari di ogni altro sistema medico –essa ne costituisce, come abbiamo visto, uno dei tanti oggetti di indagine, dall’altro, entrambe fanno bene o male riferimento a un comune orizzonte epistemologico: quello della concezione scientifica del mondo. Talché, l’approccio biologico agli stati di salute/malattia e in qualche misura il concetto stesso di malattia – in altre parole il corpus cognitivo costruito dalla biomedicina – non possono non costituire, per l’antropo-logia medica, un punto fondamentale di riferimento in vista dell’avvio di un approccio, a tali stati, integrato e compiutamente scientifico.
È  in  questo  doppio  rapporto  con  la  medicina  occidentale  che  l’antropologia  medica viene in certo modo a costituirne una sorta di coscienza critica e un possibile stimolo verso nuove e più organiche aperture del suo paradigma scientifico, contribuendo così a superarne, in una prospettiva sistemica, i limiti biologistici, la ancora pesante settorialità conoscitiva e operativa, e alcune persistenti chiusure “ideologiche” verso quanto può provenire da saperi acquisiti nell’ambito di altre medicine.

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